Il Bertonianum o Scuola Apostolica

 

Quando, finita la guerra, i nostri chierici parlavano della loro futura sede e ne sospiravano la realizzazione, si chiedevano che nome dare alla nuova sede. Tra tutti i nomi proposti prevalse quello di "Bertonianum", nome uscito dalla fervida fantasia di Luigi Miori. La denominazione rimase comune in quegli anni, anche se tra il serio e il faceto. La trovo pure nelle cronache del Bertoniano. Però non ebbe seguito, e venne chiamato con i nomi già noti di Scuola Apostolica, seminario, studentato di s. Leonardo – o semplicemente, «s. Leonardo».

Comunque, nella pratica di ricostruzione, porta il nome di "Scuola Apostolica", come aveva prima della distruzione. È il nome con il quale aveva avuto il riconoscimento di ente morale concordatario nel 1931. Era necessario perciò ritenere la medesima denominazione, per evidenziare che si trattava di ricostruzione dell’edificio distrutto dagli eventi bellici. Questo per avere diritto al contributo dello Stato.

In effetti l’edificio, o gruppo di edifici, situati nell’area della ss. Trinità subirono, in diversi tempi, tre bombardamenti aerei che li distrussero quasi completamente. Rimasero in piedi alcuni locali, separati dal corpo principale, locali che servirono, in quei tempi di emergenza, come sede provvisoria del gruppo missionario stimmatino.

Dopo la guerra, in ordine alla ricostruzione, si procedette alla perizia dei danni subiti dagli edifici.

L’ufficio del Genio Civile, nel controllo e verifica, riconobbe la cifra di £ 97.900.000, quale danno subìto a causa della guerra. Importo che fu poi approvato dal Ministero dei Lavori Pubblici. Il relativo decreto di concessione reca la data del 15 marzo 1952. (Doc. 11).

Qualche anno più tardi, per effetto dell’aumento dei prezzi, la perizia del danno venne aggiornata a lire 106.117.930. (Decreto 4.12.1954).

Per costruire il Bertonianum potevamo dunque contare almeno su quella somma anche se naturalmente non ci veniva erogata tutta e subito.

Infatti il finanziamento venne concesso per lotti, secondo le possibilità di bilancio, ed anche secondo la fortuna o la benevolenza di qualche funzionario. In teoria, ogni lotto doveva essere funzionale, cioè abitabile. Perciò occorreva ripresentare la documentazione relativa a quel lotto e seguire l’iter burocratico usato per la pratica dell’intero edificio. È facile immaginare gli incidenti di percorso insieme alla snervante attesa di parecchi anni. Perdita di tempo, aumento del numero delle pratiche, maggiori spese per lo Stato.

Intanto dal cumulo di macerie presso la chiesa della ss. Trinità di Verona, cercammo di ricuperare quanto poteva servire. Il ricupero più consistente fu quello delle travi di legno, e delle marmette o mattonelle ancora intatte, del pavimento. Parte del legname venne venduto e parte trasportato a Sezano, dove servì per la cucina e per il riscaldamento delle aule dei nostri studenti, alimentando le famose stufe. Le mattonelle, sempre a Sezano, presero il posto dei mattoni nel pavimento di molte stanze e corridoi.

Nessun elemento del vecchio complesso poté essere utilizzato per la costruzione del Bertonianum. Esisteva ancora parte del chiostro appoggiata alla chiesa della ss. Trinità, e alcune colonne giacevano a terra, intatte, tra le macerie.

L’arch. Rossi de’ Paoli, pur ammirandone la snellezza e la semplicità, affermò che non potevano essere utilizzate nel progetto del Bertonianum o del Santuario, perché diverse per stile e dimensione.

Si pensò pure a venderle: ma a chi? Valeva la pena? Dopo qualche tempo si stipulò con il comm. Adolfo Seminari il contratto di vendita di tutta quell’area. Fu bene impressionato da quel chiostro semidistrutto e pensò di asportarne gli elementi recuperabili per ricostruirlo in un convento della Lombardia, dove viveva la sorella suora.

 

 

Impresa costruttrice – preparativi – contratti.

 

Eccoci finalmente arrivati alla fase esecutiva.

La scelta dell’impresa costruttrice fu opera del prof. Piero Gazzola, ispiratore di p. Fantozzi. Gazzola, come soprintendente, aveva responsabilità sulle Province di Verona, Mantova e Cremona. A motivo del suo ufficio conobbe l’Impresa Andreotti. Ne aveva grande stima per la capacità ed onestà e la propose a p. Fantozzi. Inoltre questa impresa aveva per lui un altro punto a favore: non era di Verona, perciò la scelta non avrebbe dovuto creare malumori tra le imprese locali.

Il nome "Andreotti" non ha nulla a che vedere con l’uomo politico Giulio Andreotti. È un caso di omonimia. Aveva la sede a Cremona, in Via Dante 2. L’ing. Giulio Ceruti teneva la direzione tecnica dell’impresa, mentre il geom. Dionigi Furini fungeva da responsabile per l’esecuzione dei lavori. Ambedue erano di Cremona. Tuttavia il finanziatore e proprietario dell’impresa era l’industriale comm. Adolfo Seminari.

L’impresa fu presentata e scelta perché seria, onesta, all’altezza dell’impegno che assumeva, e sicura dal lato finanziario.

L’ing. Ceruti aveva insegnato calcolo del cemento armato al Politecnico di Torino, ma lasciò l’insegnamento per dedicarsi, con passione, all’arte del costruttore. Uomo impegnato, un po’ pessimista, era corretto, puntuale, paziente e di acuta intelligenza. Non possedeva molta abilità negli affari. Del resto non era questo il suo compito, perché se l’era riservato il commendatore Seminari. Questi teneva il centro dei suoi affari a Milano, via Senato 2. Possedeva cinque cartiere, dislocate in varie parti d’Italia. Si specializzò soprattutto nella produzione del cartone, e il prezzo da lui praticato faceva norma per tutta Italia. In "Basso Acquar" possedeva una delle cinque cartiere, la "Cartiera Verona". (Da non confondere con la cartiera Fedrigoni). Un’altra cartiera sorgeva a Longarone. Quando accadde la tragedia del Vajont, fu distrutta completamente dalla massa d’acqua. Egli ottenne dallo Stato, come risarcimento dei danni, la somma di dieci miliardi.

Affabile, ma spiccio, rispettoso ma riservato, non ebbi con lui molti rapporti.

 

Gli Stimmatini dunque, per costruire il Bertonianum, potevano contare sul contributo dello Stato (lire 97.900.000 aggiornate poi in £ 105.704.986) ed inoltre sul ricavato dalla vendita della proprietà di Affi e del terreno della ss. Trinità. Per il Santuario invece, esistevano soltanto la prospettiva del contributo statale e… la Provvidenza.

Mi sforzerò di narrare brevemente quello che fu il lavoro di anni da parte di tante persone per giungere alla sospirata ricostruzione del Bertonianum.

 

Il contributo dello Stato venne concesso, secondo la prassi, in diversi lotti e graduato nel tempo.

Eccone lo specchietto:

15.03.1952 – £ 97.900.000 - approvazione del danno bellico.

15.03.1952 – £ 37.000.000 - 1° lotto di lavori

25.09.1953 – £ 22.000.000 - 2° lotto di lavori.

04.12.1954 – £ 19.917.909 - 3° lotto di lavori, 1° sub-stralcio.

23.01.1957 – £ 27.010.190 - 3° lotto di lavori, 2° sub-stralcio.

 

Il contributo statale, secondo calcoli attendibili, copriva a malapena soltanto la metà della spesa del Bertonianum. Si decise quindi di dare corso alla vendita del terreno della ss. Trinità. Si presentarono subito problemi e difficoltà.

Vendere tutto, in blocco? Ma chi aveva la possibilità finanziaria o era disposto ad acquistare un’area di 17.000 metri quadrati? Allora, eseguire la lottizzazione, per vendere poi a lotti? Ma chi ci si metteva? Noi? Quanto tempo occorreva per trovare gli acquirenti? Mentre nel contempo i lavori di costruzione dovevano essere sospesi, a meno di finanziarli con nostri mezzi. Ma, con quali? E si era da capo.

Qui venne provvidenziale l’intuizione e la capacità di dialogo dell’ing. Loredan. Pensò di vendere il terreno all’Impresa Andreotti. Questa tuttavia non doveva versare a noi il corrispettivo in denaro, ma trattenerlo in conto lavori. In altre parole: l’impresa eseguiva i lavori, e noi avremmo ceduto la proprietà del terreno, in luogo di denaro. Questo contratto poi veniva stipulato in forma forfetaria. Cioè a dire: gli Stimmatini versavano all’impresa l’importo stanziato dallo Stato, in più cedevano l’area della ss. Trinità, e l’impresa dal canto suo si obbligava a consegnare l’edificio completamente finito, come da progetto, senza alcun aumento di spesa.

Con il tempo il costo per la costruzione sarebbe certamente aumentato, ma pure l’area avrebbe acquistato più valore e forse in maggior proporzione. Infatti l’impresa aveva possibilità e mezzi per poter iniziare subito i lavori per la lottizzazione dell’area e per venderla a lotti.

Gli Stimmatini conservavano l’intestazione del terreno e si prestavano a compiere gli atti notarili richiesti, di volta in volta, dall’impresa.

Il contratto conteneva una clausola a noi molto favorevole: era riservato alla Scuola Apostolica un compenso di £ 500 (cinquecento) per ogni metro cubo di fabbricati che sarebbero stati costruiti sul terreno, oggetto della vendita. Il preliminare porta la data del 20 giugno 1952.

Inoltre l’impresa assumeva a suo carico di aprire la strada che dal forte porta alla Scuola Apostolica, le piazzette, i cortili, i muretti. Insomma l’edificio con le adiacenze completamente funzionanti. (Doc. 12).

Come si vede, era un contratto, meglio un preliminare, un po’ pericoloso per ambe le parti, spiegabile soltanto per la totale e scambievole fiducia e nella persuasione che l’accordo riusciva favorevole ad entrambi.

 

Ecco come il cronista di Sezano annota l’avvenimento: «Oggi (20 giugno 1952) festa del s. Cuore, dopo lunghe e laboriose trattative, si conclude e si firma il preliminare della vendita del terreno della ss. Trinità, abbinato alla costruzione della Scuola Apostolica a s. Leonardo. L’accordo è assai vantaggioso per noi e dà la possibilità di avere un edificio nuovo e adatto, in una zona fra le migliori di Verona, lontana dal traffico della città e dagli inconvenienti delle caserme, veramente ideale per l’educazione e formazione dei nostri studenti, alla vita religiosa e sacerdotale». (Bert. 1952, p. 76).

 

Erano i sentimenti di tutti, specialmente degli studenti perché la cosa li toccava da vicino, ed anche di d. Cervini che aveva seguito con interesse e trepidazione tutta la trattativa. Egli, da poco eletto consigliere generale (maggio 1952), prima di partire definitivamente per Roma, aveva il conforto e la soddisfazione di fissare le premesse per la realizzazione delle due opere che gli stavano a cuore. Ne era felice e raggiante.

Ma la soddisfazione per l’accordo raggiunto con l’impresa non doveva durare a lungo. Quando il commendatore Seminari venne a conoscenza del contratto stipulato, si irritò, lo sconfessò e cercò di ottenerne la rescissione. Prese contatto con l’ing. Loredan, artefice dell’accordo e, dopo alcune schermaglie, gli chiese di avere con lui un incontro urgente. Incontro che ebbe luogo nello studio dell’ingegnere. Loredan volle che fossi presente anch’io all’incontro, sia perché la cosa riguardava gli Stimmatini, sia per sentirsi appoggiato.

Ricordo che io stavo a letto con l’influenza, ma l’ingegnere mi fece dire che non potevo mancare all’appuntamento e che dovevo essere presente anche se febbricitante. Mi presentai, mi sedetti in una poltrona, ancora mezzo abbacchiato, e seguii la discussione come meglio potevo, dicendo solo qualche parola, affermando che noi Stimmatini volevamo che l’accordo fosse mantenuto.

Il dialogo tra Seminari e Loredan fu serrato e vivace, ma sempre corretto. L’ingegnere usò tutta la sua abilità dialettica per mostrare che era un contratto equo, tra persone responsabili, fondato sulla reciproca fiducia. Del resto non si poteva annullare senza pericolo che insorgessero incresciosi e pericolosi strascichi giudiziari, che nessuno aveva interesse a provocare.

Dopo parecchio tempo, esaurite le argomentazioni, il comm. Seminari si rivolse a me dicendo: «Siete fortunati, avete un abile avvocato che difende i vostri interessi con più calore che se fossero i suoi». Il Commendatore quindi si arrese e dovette ritenere valido il contratto con le sue clausole.

Tuttavia volle modificare i rapporti interni con l’impresa Andreotti. Egli si sostituì in toto ad essa come acquirente del terreno della ss. Trinità e si impegnò a versare di volta in volta le somme necessarie per la costruzione della Scuola Apostolica, come specificato nel contratto sottoscritto dall’ing. Ceruti.

Da allora, nella vendita dei lotti del terreno, noi dovevamo attendere i "suoi tempi" che erano diversi da quelli della sua impresa. Egli possedeva dei capitali in esuberanza e poteva mettere a disposizione dell’impresa le somme necessarie per la costruzione, riservandosi di vendere il terreno quando i prezzi fossero più favorevoli. Ha agito anche qui da uomo di affari, consumato. Difatti fece aprire dall’impresa la strada che taglia l’area a metà, attuò le infrastrutture, presentò un piano di lottizzazione e lo fece approvare dal Comune. Vendette un primo lotto alla società Michelin e attese del tempo prima di venderne altri. L’ultimo appezzamento fu quello adiacente alla chiesa della ss. Trinità, che egli riuscì a vendere al Comune di Verona. Era quasi impossibile reperire compratori, a causa del vincolo edilizio posto dalla Soprintendenza ai monumenti. Il Comune acquistò tutta l’area, eresse degli impianti sportivi, lasciando un’ampia zona di rispetto lungo la navata ovest della chiesa e parte dell’abside.

Naturalmente chi non sapeva, o fingeva di non sapere, andava ripetendo: «Chissà quanti milioni hanno intascato gli Stimmatini!». In realtà il comm. Seminari diede alla fine un modesto benservito all’Istituto, nella persona del sottoscritto (due milioni, mi pare) per la disponibilità a prestarsi, sempre e dovunque, per la firma di tutti i contratti di vendita, che furono molti.

Qualcuno, non allora, ma più tardi, disse che fu un affare pessimo, una specie di svendita del terreno. Il problema ce l’eravamo posto anche noi. Ma allora avevamo urgenza di costruire il Bertonianum per i nostri studenti.

Tutti quelli che allora erano a conoscenza del contratto dissero che era stato per noi vantaggioso. Naturalmente ognuno è libero di avere la propria opinione in merito.

 

 

La costruzione

 

Concluso l’accordo con l’impresa per la costruzione della Scuola Apostolica e del Santuario (20 giugno 1952) e resa agibile la strada che da Via Marsala sale a s. Leonardo (estate 1953), non restava che passare alla fase esecutiva, cioè iniziare i lavori veri e propri. Era il momento tanto atteso!

Nel 1952 erano avvenuti dei cambiamenti nell’organico della Provincia. Scaduto il sessennio, p. Martinis veniva rieletto Superiore generale (17 maggio 1952) e padre Cervini era stato scelto come uno dei Consiglieri generali. In luglio veniva nominato dal Consiglio generale il nuovo direttivo della Provincia. Superiore provinciale p. Vittorio Battisti, mentre io venivo confermato nell’ufficio di Consigliere provinciale. Naturalmente scadevo dalla carica di superiore locale, e al mio posto veniva nominato direttore della comunità di Sezano p. Ignazio Bonetti.

Per il programma della ricostruzione non ci fu alcun mutamento. Io venni confermato come persona di fiducia di p. Fantozzi e incaricato immediato per la realizzazione dei programmi iniziati, sempre naturalmente d’intesa con il p. Provinciale e suo Consiglio. Mi pareva così di essere più libero per seguire più da vicino i lavori, le pratiche, i contatti con p. Di Giusto a Roma.

Ma dopo un po’ di tempo, dietro richiesta di monsignor Pietro Albrigi, p. Battisti mi propose di dare un aiuto all’incipiente Istituto secolare di d. Mazza, che muoveva i primi passi nella sua nuova vita, dopo l’approvazione da parte del Vescovo. Mi portai quindi a Verona, via s. Carlo 5, sede dell’Istituto Maschile don Mazza e vissi con quella comunità di sacerdoti, di chierici, novizi e aspiranti, per tre anni. (ottobre 1952 - settembre 1955). Così dormivo al d. Mazza, salivo per la scuola a Sezano (due o tre volte la settimana) mi interessavo di lavori, e un po’ degli affari della Provincia. Anni belli, che mi hanno permesso di avere una maggior apertura ecclesiale, ma impegnativi e... movimentati.

Penso di non dovermi dilungare sulle fasi della ricostruzione del Bertonianum, sia perché non ho un’esperienza specifica, sia perché mi pare non riveste molta importanza nell’insieme della storia che si viene narrando.

Lo staff dell’impresa Andreotti, già sappiamo, era costituito dall’ing. Giulio Ceruti, dal geom. Dionigi Furini il quale era presente ogni giorno e dirigeva l’esecuzione dei lavori, e infine da un altro geometra, Giacomo De Poli, di Verona, che passava le ore in ufficio per la contabilità e i contatti esterni, ed un capo uomini.

Tecnico di fiducia dell’architetto Rossi de’ Paoli era l’ing. Angelo Tomelleri, scelto e stipendiato da lui, allo scopo di controllare che tutto procedesse secondo i disegni. L’architetto infatti veniva solo di tanto in tanto da Roma, per i problemi di maggiore entità e quando la sua presenza era chiesta dall’impresa o da noi.

Da parte del nostro Istituto l’uomo di fiducia era l’ingegnere Loredan, il quale, non potendo evidentemente passare tutto il giorno in cantiere, aveva assunto a suo carico un perito, certo Bruno Bertuzzi, il quale, pur non possedendo il diploma di geometra, era molto capace, intelligente e fedele. Aveva contatti giornalieri o quasi con l’ingegnere a cui riferiva sull’andamento dei lavori e dal quale riceveva indicazioni e ordini. Era il geometra contrario, come chiamato volgarmente.

In realtà ci furono sempre una grande e cordiale intesa tra le due parti e una invidiabile collaborazione dal lato tecnico. Merito certamente di tutti perché erano uomini di statura umana e morale sopra il comune, ma merito precipuo dell’ing. Loredan. Per la sua capacità nel proporre e nell’esporre, per la sua umanità, che si esprimeva nel tatto, nel rispetto e nella semplicità del comportamento: sempre un vero gentiluomo e, aggiungerei, un vero cristiano. Ricordo alcuni accorgimenti dovuti alla sua intuizione e al suo intervento. Egli suggerì di scavare un corridoio attorno alle fondazioni dell’edificio, in modo da isolarlo dal contatto immediato col terreno, creando uno spazio vuoto. Lo scopo era di evitare l’umidità all’edificio, di permettere il passaggio di tutte le tubazioni e la possibilità d’intervenire, in caso di riparazioni, senza toccare alcuna parete.

Così pure sempre allo scopo di proteggere dall’umidità ottenne che il pavimento del piano interrato non toccasse immediatamente il suolo, ma fosse rialzato di almeno 30 cm mediante muriccioli su cui poggiavano lastre di cemento, creando così, al di sotto, una camera d’aria.

Un altro accorgimento fu quello di realizzare un «cordolo» di cemento armato nei muri dell’edificio all’altezza di un metro circa da terra, per evitare cedimenti e conseguenti crepe sui muri, nell’assestamento del fabbricato che poggiava su diversi tipi di terreno.

I materiali per i bagni, i servizi, le porte e finestre furono sempre di ottima qualità. Ricordo le tapparelle delle finestre, che sono in legno di Svezia, commissionate alla Komarek di Rovereto, ditta tra le migliori d’Italia.

La muratura è in calce e pietra di tufo, proveniente dalle cave di Avesa-Quinzano. La scelta fu voluta esplicitamente dall’architetto Rossi de’ Paoli ed era condivisa pure dall’ing. Loredan. Ricordo un colloquio tra l’ing. Ceruti e il geom. Furini da una parte, e Rossi-Loredan dall’altra. I primi proponevano di usare materiali più "moderni": cemento armato, con relativi materiali prefabbricati, mattoni, ecc. Gli altri due invece furono irremovibili: solo pietra-tufo, della zona. I motivi, se ben ricordo, furono parecchi. I materiali tradizionali erano più resistenti e coibenti sia per il caldo-freddo, che per il rumore. L’edificio era destinato a seminario e richiedeva un aspetto dignitoso, perciò solenne e con un tocco d’arte. Non doveva scendere al livello di capannone o di edificio industriale.

E così fu fatto.

Il Bertonianum ha la stabilità di un fortilizio, lo spessore e la durezza delle costruzioni del "tempo passato". Se ne accorge chi vuole anche solo piantare un chiodo su quei muri! E ha la presunzione di non sfigurare tra le costruzioni consimili, sorte nel dopoguerra!

 

 

Tempi della ricostruzione

 

La concessione di un primo lotto di lavori per la ricostruzione della Scuola Apostolica, dell’ammontare di £ 37.000.000 è del 15 marzo 1952. Avremmo quindi potuto e dovuto iniziare i lavori a quella data. Ma ci furono due motivi che consigliarono di rimandare l’effettivo avvio dei lavori. Il primo, tecnico, perché la strada d’accesso non era ancora percorribile dai mezzi pesanti, il secondo, economico, per poter attendere il finanziamento del secondo lotto, promesso per l’anno successivo. In tal modo l’impresa sarebbe partita con più tranquillità, avendo a disposizione una somma più consistente. Nel frattempo sarebbe stato completato il tracciato della strada (gennaio 1952 - aprile 1953) e l’impresa avrebbe eseguito la massicciata della medesima, almeno per la metà, della larghezza di m 3,50.

Il giorno 1° luglio 1953 venne firmato l’atto di appalto tra la Scuola Apostolica e l’impresa Andreotti e si diede principio ai lavori. Ricordo che, arrivato da poco tempo presso la Pia Società d. Nicola Mazza, salii con alcuni studenti da s. Carlo al colle s. Leonardo per vedere i lavori in corso. Gli uomini dell’impresa stavano proprio "arando" con un pluri aratro, trainato da un potente trattore, il terreno dove doveva sorgere l’edificio. Il terreno smosso veniva trasportato e livellato da una ruspa.

L’impresa infatti iniziò i lavori alla grande, dispiegando dovizia di mezzi, assumendo numerosi operai con la volontà espressa di far presto. Era una vera soddisfazione vedere l’ordine, la regolarità con numerosi operai che lavoravano nel vasto cantiere, sentire il rumore delle impastatrici, osservare il movimento delle gru, alte e con braccia lunghe, guardare il susseguirsi dei mezzi di trasporto che scaricavano calce, cemento o pietre.

I lavori proseguirono con celerità. Una volta ho potuto costatare che l’edifico era avanzato di un piano, in una settimana. Naturalmente, eretti i muri, non è fatto tutto! Infatti i lavori si protrassero per tutta l’estate del 1953 e tutto l’anno 1954, quando i nostri studenti che dimoravano a Sezano, proprio negli ultimi giorni dell’anno, decisero di scendere e prendere possesso del loro Bertonianum anche se non finito. Avevano tanto atteso, era tanta la voglia di avere una "loro" dimora, che superarono ogni ostacolo.

 

Ma lascio la parola al cronista di Sezano: «Durante tutto il mese di dicembre i nostri aspiranti fratelli sono occupati a ripulire e sistemare i locali della nuova sede dello Studentato a Verona che, nelle parti destinate agli studenti, sta per essere ultimata. Dopo Natale poi, dal 27 al 29 dicembre, si effettua il trasloco, favorito da un tempo bello ed eccezionalmente mite. Della nuova casa, la cui costruzione segna una tappa tanto importante nella vita dello Studentato e della Provincia, occorrerà parlare a parte. Basterà accennare ora che gli studenti hanno occupato i locali a loro destinati, mentre i padri e i fratelli si sono adattati nelle stanze della biblioteca e dell’infermeria, e le suore hanno il loro appartamento nella casa già abitata da don Dall’Acqua. (Nota: era deceduto cinque mesi prima, il 29 luglio 1954). La vita di scuola riprende con l’inizio dell’anno nuovo». (Bert. 1954, p. 476).

 

Ricordo che io e il p. Provinciale (p. Battisti) eravamo contrari che gli studenti scendessero da Sezano in quella data, e proponevamo di fare il trasloco durante la settimana di Pasqua del 1955. Questo per evitare i disagi connessi al trasloco in una stagione rigida, e anche perché i muri non erano perfettamente asciutti. Ma p. Ignazio Bonetti, allora superiore della comunità di Sezano, non volle sentire ragioni e scese con gli studenti, accettandone i conseguenti disagi.

Il giorno 9 di febbraio 1955 vennero a risiedere nel nuovo edificio di s. Leonardo gli studenti di teologia alcuni di essi erano brasiliani i quali erano ospitati presso la casa delle Stimate, con il loro prefetto padre Alfredo Antolini. Il 23 dello stesso mese di febbraio presero dimora a s. Leonardo anche i novizi, provenienti da Cadellara. «La nuovissima casa è animata dalla vita esuberante di quasi 200 ragazzi che attendono alla loro preparazione con maggior agio e serenità. Mancano, è vero, ancora molte cose: arredamento, mobilio dei locali, la cappella è da sistemare, del teatro esistono i muri, ma c’è nell’aria fervore di lavoro e di rifinitura». (Bert. 1955, p. 11)

 

Intanto l’impresa non si era fermata. Ai primi di gennaio dava corso ai lavori di costruzione del terzo lotto, che includeva il reparto dei padri: lavori più impegnativi e più lenti, perché, secondo il progetto, si dovevano creare cinquanta stanze. Ai primi di aprile i muri del nuovo lotto, comprendente tre piani più lo scantinato, erano già in piedi, e il 7 maggio gli operai festeggiarono il raggiungimento del tetto. (Bert. 1955, p. 105).

Alla fine di dicembre del medesimo anno «i lavori sono quasi finiti e l’impresa sta già ritirando le sue attrezzature. Lavori speciali sono ancora in corso per la sistemazione delle strade che danno accesso alla vasta sede e ai cortili. Molto ben riuscito il rimboschimento che promette bene e dovrà dare, con il tempo, un aspetto veramente suggestivo. Anche la chiesa dedicata alle ss. Stimmate benché spoglia e mancante ancora della pala dell’altare maggiore, è stata ripassata all’interno con tinta riposante e decorosa». (Bert. 1955, p. 65).

All’inizio del nuovo anno 1956 «finiti tutti i lavori all’interno e all’esterno, ci si può sistemare secondo i piani prestabiliti; alle fine di gennaio i padri e i fratelli passano nell’appartamento loro preparato, ove trovano allestita pure una devota cappellina, mentre gli studenti approfittano delle giornate di sole di questo primo mese, per le loro gare di pallone nel nuovo campo già ultimato». (Bert. 1956, p. 106).

 

Per quanto riguarda la cappella destinata a tutta la comunità (chiesa, come viene chiamata dal cronista!) si pensò di completarla con degli affreschi. Venne propizia la buona volontà di un sacerdote trentino, certo Angeli d. Giuseppe, conoscente ed amico di p. Cervini, ed ex stimmatino, il quale volle assumersi tutte le spese degli affreschi.

L’incarico fu dato al pittore Carlo Bonacina, di Trento, suggerito dall’arch. Rossi de’ Paoli. Il Bonacina aveva appena dipinto due o tre pale d’altare nel Tempio Votivo di Porta Nuova; e i suoi dipinti non dispiacevano, anche se non avevano la pretesa di essere capolavori.

Il Bonacina si mise all’opera e dipinse a fresco la pala dell’altare maggiore raffigurante la "Crocifissione di Gesù". Soggetto proposto da noi particolarmente da p. Ignazio Bonetti e che ricorda il mistero delle cinque piaghe o stimmate del Signore. Il dipinto fu condotto a termine verso la fine di maggio 1957. (Bert. 1957, p. 275). Poi intraprese l’esecuzione della Via Crucis, sempre a fresco, e la terminò entro l’anno 1958.

«È doveroso esprimere la nostra gratitudine al sac. Giuseppe Angeli, valido quanto umile benefattore dello Studentato che ha voluto sostenere la spesa di ambedue le pregevoli opere». (Bert. 1968, p. 149).

Sul valore artistico di questi affreschi non mi sento di pronunciare alcun giudizio. Certamente hanno contribuito a rendere più accogliente e devota la cappella dei nostri giovani aspiranti e professi, e a rendere sempre più gradita e amata la sede della loro formazione.

 

Riguardo al "rimboschimento" o ambientazione della Scuola Apostolica in mezzo al verde, l’arch. Rossi de’ Paoli desiderò studiare e presentare un suo progetto personale, essendo appassionato e competente di giardini e boschi, secondo la sua affermazione.

Nella mappa da lui redatta vennero indicati: la specie, il numero delle piante e il punto dove collocarle a dimora. La sua preferenza fu per il cipresso, pianta caratteristica della zona. Suggerì di piantare dei pioppi tra un cipresso e l’altro perché, essendo piante d’alto fusto, veloci a crescere, avrebbero nascosto subito l’edificio, in attesa che i cipressi, assai più lenti, "inquadrassero" la neonata Scuola Apostolica con una cornice di verde. Terminata poi la loro funzione dovevano essere abbattuti.

In seguito vennero posti a dimora altri alberi, anche negli spazi non previsti nel progetto Rossi de’ Paoli: tutt’intorno al piazzale del Santuario, lungo il viale d’accesso, sopra il terrapieno dell’ex fortificazione e nel terreno ex proprietà di d. Dall’Acqua.

Nell’attuazione dell’ampio cortile, dove si gioca al pallone, come pure nella scelta dell’arredamento dei nuovi locali, ebbe parte considerevole il nostro confratello p. Loris Fondriest. Egli, da poco aveva conseguito il diploma di geometra e il p. Provinciale Vittorio Battisti gli diede l’incarico di seguire i lavori di completamento dell’edificio ed annessi. D. Loris, a sua volta, si valse della collaborazione di Bruno Bertuzzi. In genere erano lavori non compresi nel progetto di Rossi de’ Paoli e nel contratto con l’impresa Andreotti; quindi da computare separatamente e pagare in contanti.

Il verbale di ultimazione dei lavori da parte dell’impresa nei confronti dello Stato, porta la data del 31 ottobre 1957.

Completato così il Bertonianum, gli studenti poterono godere di una sede dignitosa e di un luogo salubre, in una zona amena, fuori e nello stesso tempo ancora entro la città, non lontana dai luoghi dove s. Gaspare Bertoni diede vita all’Istituto dei Preti delle ss. Stimmate.

Il numero delle persone presenti nel Bertonianum in quegli anni arrivò fino a 250, comprendendo i ragazzi delle scuole medie e superiori, del liceo, della teologia e, qualche anno, anche i novizi. Poi cominciò lentamente il declino, fino all’attuale spopolamento.

Anche l’edificio subì delle trasformazioni, sia per un aggiornamento ai tempi, sia per adeguarsi alle nuove destinazioni: installazione degli ascensori, ristrutturazione delle stanze dei padri con ricavo dei servizi nelle singole camere, trasformazione in stanze di una parte delle aule e della biblioteca, adeguamento dello scantinato per la nuova destinazione di attività missionaria.

Ma questo fa parte della "vita" del Bertonianum. Altri sono in grado più di me di narrarne la storia: io mi son limitato a raccontarne la nascita.

 

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