BOMBAY - 22.11.1932
Arrivammo alla bellissima baia di Bombay alle tre di mattina. La nave si ancorò fuori del porto, aspettando l'alta marea per poter approdare alla panchina. Ci alzammo presto. Dal ponte si vedeva in lontananza la città col suo grandioso porto, rigurgitante di navi e di barche. La levata del sole fu magnifica: fasci di luce rossa, che cerchiava tutta la baia, pareva tutta una fiamma. Alle 5 circa incominciò l'alta marea; saliva come un fiume tumultuoso, sollevando dal fondo il limo marino, colorando le acque di torbido. La nave si mosse lentamente, rimorchiata da due vaporini: due pigmei che tiravano il pacifico gigante. Il molo è immenso con una fila lunghissima di gru colossali. Lì in basso, una schiera di facchini in riga, seduti all'indiana, neri, sporchi, scalzi; con uno straccio a più colori in testa, con indosso un vestito indescrivibile giubbettino, camicia infuori, calzoni... volanti che servono anche per forbirsi il naso e le dita in mancanza di fazzoletto.
Scendemmo a terra assieme ad alcune suore, accompagnati da un sacerdote indiano del Malabar: un ottimo sacerdote, che fu a Roma a studiare, dottorato in più scienze, gentilissimo, parla italiano, francese, inglese, indiano, ritornava dal Congresso di Dublino. Attraversando magnifiche vie, fiancheggiate da palazzi grandiosi, belli, di stile fantastico, a mille tinte, con lavori di gusto molto fine, ci recammo prima di tutto alla sede dell'Arcivescovo. L’Arcivescovo è un gesuita. Ci accolse con grande affabilità, ci fece sedere, si interessò delle nostre cose, del nostro viaggio, ci augurò tante cose ed infine ci diede la sua benedizione.
Visitammo la Cattedrale, il grandioso collegio S. Francesco Saverio, dove vengono istruiti, sotto la direzione dei padri gesuiti, migliaia di giovani d'ogni religione e d'ogni civiltà: una bellissima chiesa, chiamata “Gloria”, che nel numero dei suoi devoti conta anche dei graziosi uccellini, che volano da una colonna all'altra, cantando a Dio la loro canzone. Visitammo la famosa Torre del Silenzio, che si eleva sul colle Malabar, bellissimo per la sua stupenda vegetazione: alberi giganteschi, con tutte le più leggere sfumature del verde, ornati di fiori, di frutti, in un'armonia di uccelli. Questa torre è chiamata anche la Torre della Morte, ed è il luogo dove i Parsi, che formano la casta più potente e più ricca degli indiani, portano i loro cadaveri per darli in pasto agli avvoltoi. Per rispetto alla terra ed al fuoco che essi considerano sacri, non seppelliscono, né bruciano i loro morti, ma li mettono dentro a questa grande torre, in loculi speciali, dove gli avvoltoi si precipitano con una voracità spaventosa, dilaniando quei poveri morti in mille maniere, disputandoseli ferocemente gli uni gli altri. Bastano pochi istanti e del morto non restano che quattro ossa spolpate, che vengono esposte a tutte le intemperie finché divenute polvere il vento disperde lontano. Però solo i parenti e gli intimi del morto possono assistere a questo ributtante spettacolo, ai profani viene concesso solo di assistere stando nei giardini vicini. E gli avvoltoi? Ce ne sono a migliaia a migliaia: tutta la città è piena, sono come da noi le rondini. È uno spettacolo vederli roteare e librarsi sulle loro grandi ali: vi vengono anche vicino come fossero uccelli domestici; e nessuno li tocca, guai, non si possono uccidere, perché chi sa mai quale spirito abita in loro.
Si potrebbe chiamare Bombay la città degli avvoltoi, oppure, se meglio vi aggrada o se vi sembra più poetica, la città delle vacche sacre. Infatti le vacche sacre sono un'altra meraviglia di questa immensa e miserissima città: ne vedete ad ogni via, ad ogni angolo, in ogni cantone. Sono brutte, con delle orecchie lunghe, una gobbetta sul groppone, senza corna e sporche come tutte le altre vacche del mondo. Sono libere per la città come signore; possono andare dove vogliono, entrare nelle case, nelle botteghe, nei negozi senza essere minimamente molestate. Nessuno le tocca, nessuno le scaccia, nessuno se n’ha a male, tutti le rispettano, tutti le accolgono con venerazione, nessuno si azzarda a far loro un dispetto, tutti si tengono onorati di portare loro da mangiare. Passando ne abbiamo vista una che leccava tranquillamente la frutta esposta sulla via; né al fruttivendolo passò per la testa di allontanarla, macché, fortunati, avventurati quei cittadini, che potranno assaporare simile frutta, lambita, direi quasi benedetta, se non fosse troppo, dalla bavosa lingua di una vacca sacra!!! Povera umanità, dove sei andata a finire allontanandoti dal tuo Creatore, dal tuo Faro, che ti illuminava e ti guidava, e che ti avrebbe illuminato e guidato ancora se tu lo avessi voluto!
Lo sapete, questi poveri indiani sono la maggior parte di religione indù. Venerano queste disgraziate vacche, che non hanno certamente nulla a cui si possa, anche volendo, attaccare una leggera ragione per cui siano degne di un po' di venerazione; capperi, sono vacche, nient’altro che vacche, anzi se hanno un carattere che le differenzi dalle altre, è la loro bruttezza, senza dimostrare certamente che le altre siano belle, per carità, mettiamo da parte simili conclusioni. Le loro carni non si possono mangiare, e per conseguenza nessuno le uccide; muoiono di malattia, o vengono meno per la decrepita loro età. L'indiano però che non mangia le saporite carni delle sue vacche, non disdegna per devozione, di berne l’orina, e di mangiarne lo sterco!
E quando si sentono giunti all’ora estrema della loro vita, come segno della loro fede e della loro speranza (incredibile) si attaccano alla coda di una di queste vacche, e con la coda in mano esalano il loro ultimo respiro; Sic, non invento, l’ho sentito da un P. Gesuita, che fu in India per tre anni e che ora viaggia con noi verso la Cina. Ah! quando ripenso a quello che ho veduto, a tutto questo, mi sento commuovere fino al più profondo del cuore: pensare che non sono cattivi, che sono buoni, gentili, cortesi; pensare che Gesù è morto anche per loro e che sono chiamati anche loro alla sublime realtà di una vita più bella, alla fede e alla speranza nel Cristo venuto!! Rogamus.
Un'altra cosa che colpisce in questa città, è la miseria, il gran numero di poveri che incontrate per via. Ne avete uno ad ogni passo. Vedere i bambini, vestiti, se sono vestiti, accanto alla loro povera mamma, che stendono al passante la manina per domandare la carità, con due occhietti, che gridano pietà, con un visetto smunto e sudicio sentirli borbottare parole incomprensibili, con una nenia mesta mesta, come un gemito, e battersi, come segno della fame che hanno, battersi con la manina la pancia. Bisogna farsi forza per non piangere. Vedemmo anche un incantatore di serpenti e assistemmo alla lotta della martora col feroce colubro. Al porto poi c'era pure un vecchio fachiro, lì solo, con una barbetta incolta, bianca, con un bastone in mano, silenzioso, con lo sguardo morto, incomprensibile, misterioso; chi sa a cosa pensava.
Il piroscafo partì all'una dopo mezzogiorno. La giornata era bellissima, ma faceva un caldo birbone, si sudava per divertimento. Avemmo anche una magnifica serata e per la prima volta assistemmo al curioso spettacolo della fosforescenza marina. È un fenomeno bellissimo, prodotto come si crede, da un’infinità di piccoli molluschi fosforescenti, che danno al mare un aspetto fantastico, illuminandolo con una luce azzurra e violetto. Una scena interessante davvero qualche cosa di
bello e di poetico: vedere il mare prendere nell'oscurità della notte questo aspetto luminoso, tutto un tremolio di colori e di luci; apparire e scomparire, impicciolirsi e farsi più grande, avanzarsi con l'onda e infrangersi contro i fianchi della nave. Una fantasia.