INCONTRO CON UN VESCOVO ORTODOSSO - 20.11.1932

Nel pomeriggio mi trovavo sulla prora in compagnia di D. Pojer, occupato in una delle nostre solite conversazioni, seduti lì, all'aria aperta, nella speranza di godere un po' di fresco, o meglio di sentire meno forte il caldo insopportabile di queste regioni. Vicino a noi, seduto sopra un mucchio di grosse gomene, solo, quasi pensieroso, stava nel suo ampio vestito, col suo turbante nero, da cui usciva un velo, pure nero che gli cadeva sulle spalle, un vescovo ortodosso, maestoso nell'aspetto, con una barba lunga e bellissima, con i capelli fluenti, tagliati alla nazarena, con le labbra composte ad un leggero sorriso. L'occhio aveva l’espressione di chi desidera rivolgere la parola all'amico vicino, ma muto per rispetto, o forse perché il senso dell'amicizia non si era ancora manifestato. Comprendemmo subito che desiderava parlare e gentilmente lo salutammo incominciando la conversazione. Sa un po' il francese, ma pochissimo pochissimo, tanto da scambiare qualche parola e non più. È molto affabile e gentile. La sua patria è la Russia, da dove è fuggito per la persecuzione bolscevica. Ora va a Pechino, ma poi ritornerà a Shanghai, che per il momento è la sua residenza episcopale: nell'attesa di tempi migliori, di poter ritornare in patria. È stato di passaggio anche in Italia, a Roma, nelle Catacombe. Ci invitò anche a scendere nella sua cabina. Aveva parecchie cose da farci vedere. Accondiscendemmo volentieri. Portava con sé la fotografia del Papa, del Card. Gasparri, del Card. Pacelli. «Oh! bene, bene, esclamammo noi, e, indicando l'immagine del Papa, si faccia presto un solo ovile sotto un solo pastore». Ci sembrava di aver detto la cosa più bella di questo mondo, e invece: «No, no, fece con nostro grande stupore, no, no, Christòs unicus Pastor, non Papa, non Papa». Non provava nessuna simpatia per il Papa e nemmeno per il card. Gasparri. Al contrario dimostrava per il card. Pacelli grande venerazione: «Oh! Cardinal Pacelli, molto buono e mostrando la fotografia, io portare sempre con me!» Portava con sé anche un quadro di Mussolini: ne fece gli elogi, alti elogi.

Regalò a D. Pojer l'immagine del Papa, a me quella del card. Gasparri. Gli domandammo il suo autografo, desiderandolo sulla rispettiva cartolina che ci aveva regalato. Non volle. Prese altre due cartoline, una per D. Pojer rappresentante la corona vescovile, la loro mitra; l'altra per me, rappresentante una croce. Vi scrisse alcune parole in russo, aggiungendovi la sua benedizione. «Ecco, disse a D. Pojer, ti auguro l’episcopato». E nello stesso tempo prese dall'armadio la sua mitria e gliela pose in capo. Io, mostrandogli la cartolina che mi aveva donato, giocosamente gli osservai: «E a me la croce, nevvero?» - e feci l'atto di chi porta una croce pesante. Mi guardò, comprese in un attimo, si commosse, gli passò un lampo negli occhi sereni: «Oh! Mon frère, mon frère», disse, e mi avvicinò a sé, mi prese il viso con le sue mani e mi baciò in fronte. Mi commosse: anche lui, come tanti altri, si può dire mezzo martire, scacciato dal suo paese, lontano dai suoi cari, senza una luce nell'avvenire, nell'aspettativa di tempi migliori, che forse non verranno.