FINALMENTE A YIHSIEN - 16 dicembre 1932.
Preso il treno di buon mattino partimmo verso la nostra missione con l'ansia più viva che si possa immaginare di vedere gli altri confratelli e di mettersi in mano dei propri superiori. Fu un viaggio di nozze, un treno che era un gioiello, tanta poca gente che non si poteva nemmeno respirare non che muoversi, un freddo esilarante, con riscaldamento a finestre aperte per la semplice ragione che non si possono chiudere, e non si possono chiudere per la semplicissima ragione che non ci sono; profumi Bertelli e compagni, velocità vertiginosa, con qualche bel tipo vicino che con tutta serietà vi domanda se in Italia ci sono treni e se corrono come questi. Alla stazione di Yihsien trovammo D. Zadra che ci attendeva con alcuni cristiani. Ah! Ci siamo, ci siamo.
Che respiro profondo!!!
Siamo in casa nostra in mezzo ai nostri fratelli. La città di Yihsien è distante dalla stazione circa mezz'oretta di cammino. Per farci gustare un po’ le strade e le carrozze cinesi D. Zadra ne aveva già fatto preparare una sulla quale in un martirio continuo, dopo mille colpi, salti e ballonzamenti, per strade tutte asfaltate con buche e ciottoli d'ogni forma e d'ogni dimensione, siamo in ultima fase giunti in residenza. Un'accoglienza più che fraterna. P. Martina però non c'era, si trovava a Liangkochwang. Giunse nel pomeriggio in bicicletta. Ci abbracciò come un padre contentissimo del nostro arrivo, felicissimo di veder aumentare i sacerdoti della sua cara missione; ce ne vorrebbero tanti sacerdoti qui, c'è posto per tutti. Sapemmo come noi due chierici eravamo destinati alla casa di Liangkochwang sotto la cura speciale del superiore religioso: D. Pojer rimarrà invece ad Yihsien.
Siamo giunti: pieghiamo il ginocchio e ringraziamo Iddio.
Liangkochwang. 19 dicembre 1932.
Dopo alcuni giorni di permanenza ad Yihsien accompagnati da P. Martina ci recammo a Liangkochwang: qui studieremo il cinese e attenderemo nuovi ordini per continuare la teologia. Alla stazione venne ad incontrarci D. Caimi, con la sua barbetta, bel rubicondo, con due seminaristi in parata. In due passi siamo al T’ien Tchou T'ang, dove D. Gino ci aspetta a braccia aperte: uno scambio di saluti di auguri di felicitazioni. Si parla dell'Italia, del nostro viaggio, di tutti e di tutto.
Chi vuol saper di qua, chi invece vuol saper di là. Eh! Avremo tempo, avremo tempo: non scapperemo via più per intanto. Siamo qui e qui resteremo. Evviva il punto fermo. Ci fecero vedere subito la nostra stanzetta, dico nostra, perché non essendoci più posto in tutto il seminario, dobbiamo per intanto accontentarci di una stanzetta in due. Questa stanzetta è tutta di stile cinese, con i muri di fango e le finestre di carta, si sta una canna e mezza e se occorresse anche due canne e tre quarti. I seminaristi smaniavano di vederci: sapevano ormai tante cose di noi, anche che il mio compagno era stato morsicato dal cane, che uno aveva 20 anni e l'altro 22, uno si chiamava Tse e l'altro Pei, ma non sapevano precisamente ancora a chi dei due si doveva dare la morsicata del cane, i 22 anni, o i 20, il Tse o il Pei. Tutto questo era un mistero, solo il servo conosceva i due nuovi arrivati, e sapeva che uno era più grande dell'altro e che uno tra loro sapeva suonare l'harmonium. Non so qual altra cosa sapessero, certo si è che la questione delle comunicazioni celeri e sicure in Cina è stata risolta da un pezzo e magnificamente, non c’è bisogno né di telegrafo, né di telefono e tanto meno della radio. Qui si sa tutto e presto; ma come? Mistero!
I seminaristi sono più di una quarantina tutti allegri e vivaci, piccoli e grandi, grassi e magri; vengono da tutti i paesi, anche da paesi che si trovano fuori della nostra missione. Abitano nel lou, cioè nella casa a due piani, cosa non indifferente per un cinese, quando si pensa che essi abitano ancora nelle case ad un piano. Abitare nel lou indica ricchezza e chi vi abita è considerato come un ta Jen, un grande uomo. Vi par poco?
La cappellina è proprio tanto misera, ma in essa si prega volentieri: alla sera si fa solennemente la novena del S. Natale: siamo giunti in tempo di poter celebrare questa festa così cara qui, nella Cina, tanto infelice, insieme a questi pochi ma buoni cristiani, insieme ai seminaristi cinesi, in casa propria, uniti dal vincolo santo di una divina fraternità. E mentre faccio punto fermo di queste mie righe, mi risuona ancora l'eco del canto liturgico, così sublime, così commovente, così bello: «Rorate cœli desuper et nubes pluant Justum» (1) - che segna il grido gemente di tutta l'umanità verso Colui che doveva venire ed è già venuto, il gemito verso il Cristo Messia, Redentore nostro, il cui dominio si estende da una estremità all'altra della terra, al cui ovile tutti devono venire, al cui Nome tutti i ginocchi devono piegarsi. Questo gemito che s'innalza pure da questa terra infelice, sorpassi le nubi, risuoni forte forte nell'immenso spazio dei cieli, trovi un'eco d'infinita misericordia e pietà presso il trono del Signore Nostro Gesù Cristo, a cui sia gloria e onore nei secoli dei secoli. E mi piace aggiungere due altre parole, con cui ho sempre incominciato e con le quali voglio pure finire: "O Signore, venga, venga il tuo Regno. Venga presto e trionfi ovunque la nostra fede. Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat. Amen.
Aff.mo e ric.mo
Pesamosca Tarcisio - Missionario in Cina
N.B. Perdonatemi i molti errori e l’italiano poco corrente. Ho scritto nei ritagli di tempo, currente macchina, pescando nella memoria e dando un’occhiata ad alcuni appunti.
Spero almeno un'Ave Maria.
1) - «O cieli dateci la vostra Rugiada (la mistica rugiada che sarebbe il Redentore Gesù) e voi o nubi, pioveteci il Giusto». Sono le parole di Isaia profeta, che compendiano il gemito, la preghiera, di tutti i giusti dell’Antico Testamento, verso il Messia che doveva venire.