IL RIBELLE

Però non ero un santo: un giorno un compagno dell’orfanotrofio mi offese, secondo me, gravemente. Lo presi per il collo e lo avrei soffocato se un altro, oggi dott. Placido, non mi avesse dato una sberla in faccia per farmi tornare alla realtà: grazie a Dio mi risvegliai dall’irruenza che mi aveva fatto perdere la ragione.

Altri ricordi: combinai una marachella, meritavo un castigo. In quel tempo si usavano soprattutto gli schiaffi, e la signora Egidia: puf e paf a me. Non piangevo, ma rispondevo, ridendo con rabbia: «E io non piango!». E puf e paf… «E io non piango!»

In un’altra situazione, fui più furbo. Nella prima elementare il maestro chiedeva chi aveva studiato e sapeva le tabelline. Anche se con esitazione, io rispondevo di sì. E così non prendevo una bacchettata con la riga sul palmo della mano. Così era in quel tempo.

Un altro fatto, per descrivere la maniera di correggere.

Come ho già scritto, mio padre era molto buono ma violento nel correggere. Bambino di 6 anni, stavo prendendo caffelatte e pane con burro nella scodella. Non ricordo come è successo: ne rovesciai un po’ sulla tovaglia…

Mio padre mi diede uno scappellotto sulla testa che mi fece sbattere il mento sul tavolo. Era giusto darmi la sberla? Dovevo ribellarmi?!…

La persona non è forse più importante?

 

Scrive Maria Conceição:

“È importante che i bambini, molto presto, imparino ad avere conoscenza del valore delle cose”.

 

E Luiz Antonio Solih, psicologo: «Non esiste una regola unica da seguire. La soluzione si deve trovare attraverso il dialogo».

 

Io penso che il peggior male del nostro tempo sia la mancanza di dialogo. La parola di Dio ci aiuta ad incontrare la Verità e a metterla in pratica.