Capitolo VIII
APOSTOLO DEL CONSIGLIO
Un carattere spiccato della personalità e della santità del Bertoni fu la sua dote di prudenza, di consiglio, di penetrazione profonda nelle cose e nei cuori degli uomini.
Lo rilevarono in molti e ce ne rimangono tante testimonianze. Ne riferiamo subito una di P. Antonio Bresciani, gesuita, perché valga per molte altre. È espressa in forma un po' retorica, secondo il gusto del tempo e dell'autore, ma la sostanza del contenuto è garantita da tanti altri testimoni.
“Il carattere cospicuo della santità di quell'uomo straordinario a me pare che sia appunto il lume del consiglio, così intorno a sé e alle cose sue, come intorno alle cose altrui.
Oltre il senno naturale onde Iddio l'aveva sì largamente fornito, mi sembra che ogni sua azione fosse pesata e diretta al raggio dello Spirito Santo: e quella sua dolcezza, quella sua modestia e gravità, quella gentile cortesia che accompagnava ogni atto, ogni operazione di Don Gaspare erano frutto della soavità e saggezza infusagli dal Divino Spirito, per renderlo strumento atto a guidare le anime a vita eterna. Il Rev. P. Fortis, Generale della Compagnia di Gesù, che l'aveva trattato così intimamente in Verona, ed i Vescovi Grasser e Mutti richiedevano del suo consiglio nei negozi e nelle pratiche più difficili e delicate della diocesi”.
Questa testimonianza dice molte cose e tante altre ne fa supporre. Essa fu resa due anni dopo la morte del Servo di Dio, nel 1855. Il Bresciani (1798-1862) era stato sacerdote secolare e professore di lettere nel Liceo di Verona. Attraversando molte difficoltà ed opposizioni, col consiglio e l'assistenza di Don Bertoni, era riuscito a sganciarsi dal mondo e a portarsi nel noviziato di S. Andrea del Quirinale in Roma, nel novembre 1824. Felice e riconoscente per aver potuto seguire la sua vocazione religiosa, trent'anni dopo esternava con questo scritto tutta la sua gratitudine verso il Servo di Dio.
Il cenno al P. Fortis (1748-1828) comprende tutto il periodo della giovinezza di Don Gaspare, quando era studente a San Sebastiano, e poi sacerdote a San Paolo in C. M. e a San Fermo Maggiore, fino al 1814, quando la Compagnia fu ristabilita ufficialmente.
Dopo una prima partenza da Verona nel 1794, il Fortis aveva infatti dovuto ritornare in diocesi, tenendosi sempre strettamente unito al suo caro discepolo. In momenti di grave necessità economica era stato da lui caritatevolmente soccorso con ricche elemosine di messe; e quando nel 1812-13 Don Gaspare fu gravemente ammalato, il Fortis lo sostituì nell'ufficio di Padre Spirituale del Seminario.
Su questi antefatti era fondata la loro mutua stima, ed è meraviglia che il Bertoni, di tanto più giovane, fosse tenuto in tanto conto da chi era stato suo maestro e padre.
L'episcopato dei Vescovi Grasser e Mutti copre il ventennio che va dal 1830 al 1850 e corrisponde ai cinquanta-settant'anni di Don Gaspare.
Di tutti i Vescovi che ressero la diocesi di Verona mentre lui era in vita, Mons. Grasser fu quello che più intimamente si strinse al Bertoni per stima, affetto, e propria sincera devozione.
L'alto concetto che si era fatto del suo Don Gaspare era tale da fargli dire che se gli fosse sopravvissuto non si sarebbe meravigliato d'essere chiamato a testificare nei processi di canonizzazione di lui.
Per afferrare meglio il valore di tali affermazioni bisogna tener presente che il Vescovo Grasser era persona illuminata, prudente e veramente santa. Trasferito a Verona (1828) dalla Diocesi di Treviso, era stato accolto con freddezza ed ostilità perché tedesco. Don Bertoni, animato dal suo grande spirito di fede e dal rispetto dovuto alla autorità, concorse subito a spianargli la via. Dopo aver terminato un corso di esercizi spirituali al clero, mentre tutti insieme si presentavano al Vescovo in sacrestia, egli si inginocchiò per terra e con grande umiltà gli baciò i piedi. Fu un gesto edificante per i presenti ed incoraggiante per il Vescovo, che riuscì a pronunciare in lingua italiana una breve allocuzione. Ne rimasero tutti stupefatti, vedendo di molto superata la loro aspettativa. Quelli furono gli inizi, ma gli atti successivi e tutto il governo della diocesi, durato solo dieci anni, conquistarono al Grasser tanta stima ed affetto da parte dei suoi diocesani e dei suoi sacerdoti, che quando si ammalò e poi morì, attorno al suo letto e alla sua camera ci fu un plebiscito d'amore mai più visto.
Se il Vescovo Mons. Grasser ebbe tanta stima ed affetto per Don Gaspare, anche il Bertoni ne ebbe altrettanta per lui.
Scriveva alla Naudet che il nuovo Vescovo era un uomo “che ama veramente il bene; che vuol sapere e vedere enTro le cose, e in ogni particolarità, e che fa di per sé; persona che non affretta niente, pur essendo molto attivo ed efficace, perché prudentissimo quanto cortese e buono: insomma un uomo di Dio”. (Lett. 156).
Per quello che riguardava la sua persona e la sua opera Don Gaspare disse che “i suoi disegni e le sue intenzioni per la fondazione del suo Istituto solo Mons. Grasser con pochi altri li aveva ben penetrati ed intesi”.
E fu infatti Mons. Grasser che impose a Don Gaspare di redimere dal Fisco quei beni ecclesiastici che dovevano costituire il patrimonio della Congregazione che intendeva fondare.
Pur nei rapporti di superiore e di suddito, furono insomma due anime gemelle che si compresero e si amarono profondamente.
Anche il Vescovo Grasser volle Don Gaspare in tutti gli uffici di fiducia e di grande responsabilità che il vecchio Mons. Liruti gli aveva affidato. Lo stesso fece in seguito anche Mons. Mutti.
Dove Don Gaspare non poteva arrivare per le sue incessanti malattie, arrivava mediante l'opera dei suoi figli, oppure era il mondo di fuori che si portava alle Stimate, avviando verso quella casa e verso quella cameretta un incessante pellegrinaggio.
Oltre che le autorità e il ceto ecclesiastico, persone di ogni altro ceto si recavano a domandare consigli e a chiedere conforto.
Ed egli tutti accoglieva ed ascoltava con grande pazienza e carità, né alcun affare valeva a distoglierlo da questo ufficio, che era per lui un vero ministero sacro, esercitato per il bene delle anime.
È questo appunto quello che vuole fare notare il P. Bresciani nella sua testimonianza.
Egli rileva espressamente che tanta prudenza e penetrazione, unita a tanta semplicità, carità ed umiltà era effetto soprannaturale dei doni dello Spirito Santo, dal quale il Bertoni era stato preparato per questo ministero di direzione e di guida.
Dice anche che il Bertoni era naturalmente molto ben dotato di senno, vale a dire di prudenza, tatto e misura nel trattare gli affari e le persone. Questo ci consta anche da parte dei biografi, i quali ci narrano come fin dalla giovinezza egli si fosse data gran premura di coltivare queste sue doti attendendo assiduamente agli studi, frequentando la compagnia di persone dotte e prudenti. Per tutta la sua vita Don Gaspare affermò spesso di avere imparato moltissimo dalla savia sua madre, e ciò faceva non per sola pietà ed affetto filiale, ma con profonda venerazione e convinzione.
La dura vita imposta a Brunora e al figlio dalle bizzarrie del sig. Francesco Luigi era stata una scuola intensiva ed accelerata di pazienza, prudenza, tatto; e le due anime sante avevano saputo approfittarne moltissimo.
Gli studi profondi, intensi, svariati, sempre continuati per tutta la vita, diedero alle doti naturali il massimo sviluppo possibile.
La vasta cultura, la scienza, la fama di dotto costituirono l'attrattiva esteriore, il fogliame appariscente delle intime doti del Bertoni. Ma chi si recava da lui trafitto da un assillo o da altro, trovava nel fondo delle sue parole e della sua scienza tale una dolcezza e tale un sapore da rimanere incantato, allettato e vinto, così che il motivo per cui era venuto diventava cosa secondaria, e la nuova apertura d'anima, la intensa luce che le parole del sant'uomo offrivano, diventavano l'attrattiva e il movente principale per nuovo cammino nella vita.
Don Gaspare stesso ha vergato dei testi magnifici che confermano in pieno quanto abbiamo voluto fare rilevare sulla testimonianza del Bresciani.
Dice scrivendo alla Naudet: «Come si impara questa prudenza non umana ma celeste? E chi ne può dare leggi ed ammaestramenti? Ecco la scuola, ecco il Maestro che ne lo addita la Sacra Scrittura. Introduxit me rex in cellam vinariam, ordinavit me in charitate. Bisogna ben lasciarsi introdurre da questo re che ci chiama, ed invita, ci aspetta, affinché entriamo nella cantina del suo amore. Quivi giunta l'anima, per sua gran sorte la inebria del vino della sua carità. Questo vino prezioso rallegra, fortifica, trasporta l'anima fuori di sé, e unendola con Dio la ordina perfettissimamente: ordinavit me in charitate. Quivi una luce si sparge nell'intelletto di ammirabile sapienza e di divina prudenza, per giudicare nella causa universale delle cose che è Dio, per eleggere, per addirizzare quanto ha rapporto con Dio, o come effetto, o mezzo a conseguirlo in futuro e glorificarlo in presente».
Argomenti così alti possono essere trattati in questo modo solo da chi ne abbia fatta diretta esperienza. I due ultimi periodi del testo citato dicono assai chiaramente che Don Gaspare tale esperienza l'aveva fatta.
Con ciò resta spiegato quel pellegrinare assiduo, devoto, ansioso. Quando si scopre una sorgente d'acqua che possegga particolari virtù, la gente s'incammina verso quella parte senza quasi dirselo, senza sapere perché. Siamo tutti assetati, tutti riarsi su questa terra; tutti sentono bisogno di refrigerio, anche i più dotati, i più forniti.
“Mendici Dei sumus”, dice S. Agostino con parola brevissima; mendicanti che apparteniamo a Dio, perché lui ci ha creati, e così ci ha creati; ma soprattutto perché di Lui abbiamo bisogno e per Lui siamo stati creati.
Se pensiamo che mentre il Bertoni a Verona attirava a sé tante persone, in Francia, ad Ars, una fiumana innumerevole, di decine e decine di migliaia di persone, ogni anno si recava in quell'angolo remoto per sentire un prete che non sapeva parlare, un prete la cui voce non si riusciva a percepire, un prete ignorante, che con gran stento e a malapena aveva potuto essere ammesso agli Ordini, allora le parole di Agostino scintillano a caratteri di folgore sul cielo cupo della nostra povera umanità!
Questo involontario accostamento ci obbliga ad alcuni rilievi e confronti.
Sia il Santo Curato d'Ars, sia il Bertoni manifestavano con la loro vita la bontà, la misericordia, la santità di Dio, e perciò la gente accorreva sempre più ansiosa, sempre più numerosa. In ciò i due ministri di Dio erano simili ed ottenevano lo stesso effetto: la salvezza delle anime. Ambedue si potrebbero dire martiri del confessionale, dove l'umanità è chiamata a deporre le proprie miserie e le proprie scorie.
Ma il loro punto di partenza era assai diverso: l'uno indotto e sempre oppresso dal ministero quotidiano, l'altro dottissimo e gran studioso per tutta la vita.
Il primo taumaturgico, traspirante il meraviglioso e il divino da tutta la sua persona; l'altro tutto semplice, lineare, umile e nascosto così da rilevarne l'interna santità solo dopo la diretta esperienza. Manifestazioni diverse dello stesso e medesimo Spirito Divino “dividens singulis prout vult” (1Cor 12, 11).
Ed ora i lettori ci devono dispensare dal riportare un lungo elenco di casi quale si ha presso i biografi. Ne sceglieremo solo qualcuno dei più rari, per dimostrare l'estensione della fama del Bertoni.
Per primo ne prendiamo uno di cui ci parla lui stesso, dimostrando il suo acume e la sua umana comprensione.
Una gran dama milanese, contessa Settala, era diretta a Vienna, dove già si trovava Don Bragato. Col pretesto di portare fin là qualche messaggio, qualche notizia, si fece ricevere alle Stimate. Don Bertoni l'accolse al pian terreno, nel luogo del ricevimento e poi ne scrisse così al suo Don Luigi: “Questa matrona, che alla voce e al cuore pare un generalissimo di armata, e al dolore che la trafigge per il figliolo defunto mostra di essere quel che è: una madre addolorata. Iddio ne vuole di tutte le sorte. Voi rendetele grazie; e nelle vostre orazioni ottenetele di farsi santa, come sono tre della sua Casa, di cui vi porta i ritratti.” (1° dicembre 1837).
Un nobile piacentino, conte Maruffi-Villa, al servigio della Corte di Parma, “ogni volta che passava per Verona, ed era pressoché ogni anno, visitava Don Gaspare con tale venerazione, che gli si inginocchiava dinanzi a chiedergli la benedizione, e stava delle buone ore a conversare con lui”. Una volta non poté essere ricevuto perché Don Bertoni era piuttosto grave, e se ne andò afflittissimo. Ma stette in Verona qualche giorno, e ritentò “se poteva ottenere la grazia di venirlo almeno a salutare e trattenersi un poco con lui”. Fu ricevuto “con sua grande consolazione” e scendendo dalle scale esclamava: “Anche questa volta Dio mi ha fatto la grazia di poterlo visitare! Oh! Che sant'uomo, che uomo di Dio è Don Gaspare!”
Abbiamo riferito di due membri di due Corti diverse. Volendo continuare nella stessa categoria dovremmo dire di quei grandi che in occasione del Congresso di Verona (1822) passarono più volte dalle Stimate o venivano per confessarvisi: come l'Ambasciatore di Spagna o il nizzardo Conte Michaud, aiutante di campo, consigliere e confidente dello Zar Alessandro I.
Nel 1825 venne alle Stimate l'Imperatore Francesco I d'Austria, e fu per una visita alle scuole così bene avviate.
Nel 1838 venne l'Imperatore Ferdinando I, e fu proprio per visitare il Servo di Dio, ammalato nella sua stanza. Già da tre anni il Bragato si trovava alla Corte come confessore dell'Imperatrice; l'augusto marito aveva certo sentito anche lui le lodi del Padre santo che abitava alle Stimate. Venendo a Verona volle soddisfare la propria devozione, e quando si accomiatò si raccomandò vivamente alle preghiere di lui. Difficile immaginare tutta la confusione di Don Gaspare.
Se vi andavano i grandi, molto più vi accorrevano i piccoli, che il Bertoni accoglieva con bontà e carità maggiori ancora. Già ne abbiamo parlato. Riferiamo solo due casi, che servono a dare due pennellate di nero allo sfondo.
Uno sfaccendato si finse chiamato alla vita austera che si praticava alle Stimate, e venne da Don Gaspare chiedendo di essere prima informato. Lo fece, come poi confessò francamente, solo per aver materia di cui intrattenersi con gli amici. Don Gaspare con un solo sguardo capì di chi si trattava, e rispose asciutto, asciutto: “Ma lei non è chiamato qua, e quindi le sarebbero del tutto inutili le mie informazioni”.
Una falsa devota, più smaniosa di letture che desiderosa di santità, venne a chiedergli consiglio circa i libri devoti da meditare. Don Gaspare la lasciò dire e parlare finché si fu bene scoperta nelle sue tendenze, poi, troncandole il discorso, sentenziò: “Signora, non fa bisogno per lei che la sola Filotea di San Francesco di Sales”. - “L'ho già letta.” Risponde quella. Ed egli: “La torni a leggere.” - “E poi?” - “La legga ancora e la rilegga; e non si stanchi di farsela sua ed unicamente sua. Mi creda: se farà quanto quel libro d'orazione le insegna, le basterà certo ad una lunghissima vita.”.
Quando Dio, mediante le malattie, rinchiuse il Bertoni in una stanza, gli fornì mezzi straordinari per compiere ugualmente un grande apostolato. Non più lui andò al mondo, ma il mondo venne a lui.
Il gran bene da lui operato con i suoi consigli, specialmente assistendo il clero, i vescovi ed altri gran personaggi, è noto a Dio solo, dicono i testimoni della sua vita.
Le consolazioni infuse nei cuori afflitti furono pure innumerevoli, e nessuno oserebbe dire che quella fu una vita inutile.
Ci resta però ancora da vedere quello che in essa fu più alto e sublime.