Capitolo XI
LA DIUTURNA MORTE
“Quotidie morior per vestram gloriam, fratres,
quam habeo in Christo Jesu Domino Nostro”.
(1Cor 15, 31)
Nel 1838 si ritrovarono a Verona le reliquie di San Zeno, protettore principale della diocesi. Dopo secoli di oblio furono riscoperte nella cripta della sua grande basilica il 22 marzo di quell'anno. L'anno seguente, in agosto, si fecero grandi festeggiamenti per onorare il Santo e riporre le reliquie in un sarcofago nuovo. Ci fu una settimana di predicazione tenuta da oratori celebri, dal 17 al 24 agosto. Uno dei predicatori fu il Bertoni, e precisamente il giorno 19. Il suo discorso, dato alle stampe con quello degli altri, ci è giunto per esteso.
Fu quella una delle ultime volte che egli poté uscire di casa. Qualche mese dopo, nel novembre, quasi portato a braccia, poté recarsi al capezzale di Mons. Grasser, che stava morendo e che ne ebbe una consolazione grandissima.
Dopo queste due sortite, minutamente attestate, pare che Don Gaspare non abbia mai più lasciato il suo Convento delle Stimate.
I 14 anni che vanno dal 1828 al 1842 li abbiamo computati fra quelli di buona, o per lo meno discreta salute; ma ciò è molto eufemistico. I mesi passati a letto anche in questo periodo furono molti e molti.
Non possiamo tralasciare di riportare una testimonianza, curiosa nella sua composizione e riboccante di affetto filiale.
È del P. Modesto Cainer, silenzioso e timido, umile e modesto, come voleva il suo nome, ma non per questo meno vibrante d'amore verso il suo carissimo Padre: “Oggi, dopo vari mesi, il nostro caro Superiore ha celebrato privatamente in coro, assistito da Don Cainer. Viva Gesù, Maria, S. Giuseppe, S. Ignazio Teresa di Gesù. Faccia Iddio che per i meriti di essi continui sempre. Ad majorem Dei gloriam, a dispetto del diavolo”. (10 luglio 1836)
Anche quando si trattò di andare a S. Zeno, per quell'incarico così impegnativo e solenne, la cosa era molto dubbia, e ne nacque un'amabile tiritera fra Don Gaspare e Fratel Paolo Zanoli, che gli faceva da infermiere. Don Gaspare, fra letto e lettuccio, dava poca speranza di sentirsi in forze per quell'ufficio, e allora domandava a fra Paolo: “Paolo, ci andremo a San Zeno?”. E Paolo rispondeva: “Vedremo”. Allora Don Gaspare chiedeva: “Paolo, ci andrò al cimitero?”. E Paolo rispondeva: “Sicuro che ci andrà, come tutti gli altri!”. Allora Don Gaspare commentava sorridendo: “Vedete com'è il nostro Paolo: sul primo quesito mi mette il dubbio; sul secondo invece mi risponde franco e sicuro!”.
Questo breve dialogo fu ripetuto fra di loro innumerevoli volte; ed anche dopo fatto il panegirico del Santo, altrimenti variato ed abbreviato, fu ripetuto a lungo.
Questo episodio sta a dimostrare come lo spirito superiore e santo di Don Gaspare sapesse sorridere e scherzare anche sui propri diuturni malanni, anziché lasciarsi vincere ed avvilire; sta a dimostrare come sapesse soddisfare la volontà e i desideri dei Superiori, anche quando il corpo stentava a lasciarsi trascinare. Questa obbedienza da parte di lui, e questi ricordi, queste richieste da parte dei superiori si protrarranno fino a qualche mese prima della sua morte, quando da più di dieci anni non usciva più di camera sua e da più di venti mesi non scendeva dal letto.
Spirito veramente eroico di obbedienza sopraffina, e lucidità di mente prodigiosa. La mano era impotente a tracciare una firma riconoscibile, ma l'intelletto era pronto a dettare la soluzione di un caso di morale, la soluzione di un caso di diritto, a dettare le osservazioni per la revisione di un libro.
Ma l'episodio del dialogo fra Don Gaspare e Fratel Paolo è riportato dagli storici per tutt'altro motivo: essi vi videro una profezia vera e propria, sia pure velata da una amabile lepidezza.
Già abbiamo avuto occasione di notare come Don Gaspare fosse maestro nel celare la sua persona ed i suoi meriti. Questo sarebbe un caso tipico. Scherzando e ridendo da buon veronese, egli riuscì a predire cose lontane, senza farne sorgere nessun sospetto.
Quanto ad andare a San Zeno, infatti, poteva prevedere di farcela calcolando le forze che si sentiva indosso, e fin qui, con un po' di acume, ci si poteva arrivare facilmente. Ma quanto a prevedere quello che sarebbe stato di lui dopo la sua morte, ancora lontana una quindicina d'anni, questo non si può spiegare senza l'intervento di un lume preternaturale.
Fu dunque una vera profezia? Può rimanerne più d'un dubbio.
Ma il Lenotti osserva, dopo aver raccontato il caso: “Il fatto fu che Don Gaspare a S. Zeno ci andò e predicò: in camposanto non ci andò”.
In camposanto non ci andò, nonostante che il P. Marani avesse acquistata la tomba e avesse tutto predisposto, perché appena terminate le esequie nella chiesa parrocchiale, per interposizione di alcuni ragguardevoli cittadini, si stabilì di presentare una richiesta alle autorità civili per ottenere il permesso di seppellire Don Gaspare nella sua chiesa delle Stimate.
Trattandosi di ricorrere fino a Venezia (Viceré) e fino a Vienna, le cose andarono molto per le lunghe. La salma, chiusa in più casse, rimase custodita per tredici mesi presso la chiesa della SS. Trinità; e dopo tredici mesi tornò trionfalmente alle Stimate, dove fu inumata il 30 luglio 1854 e dove è ancora al presente. Se Don Gaspare previde e volle predire tutto questo fu veramente profeta, mentre Fratel Paolo fu solo la sua innocente vittima.
Questo racconto ci fa presente come Don Gaspare vivesse il pensiero della morte. La sentiva in sé, nel suo povero corpo troppo ferito e disfatto; la vedeva trionfare intorno a sé, dentro la sua propria casa, con lo scomparire dei suoi figli più cari, con la defezione di altri, col venir meno all'opera della scuola (1843).
La morte in senso stretto, intendendo la partenza dell'anima da questo corpo e da questo mondo, fu per Don Gaspare una cosa dolce e lieve, tanto da passare inosservata anche a chi gli stava sopra col Rituale in mano.
Ma le ferite della morte, le angosce della morte, i distacchi della morte operarono sull'animo di Don Gaspare per undici anni continui, senza interruzione; anzi con un crescendo continuo, tale che, a considerarlo, c'è da restarne atterriti.
È per questo che nel capitolo dedicato al suo trapasso intendiamo riassumere brevemente tutti gli avvenimenti degli ultimi anni.
Fu in questo stato di morte e in grazia di questo stato di morte che Don Gaspare maturò il suo frutto più dolce e più bello: le Costituzioni per il suo Istituto, dove tutto il suo pensiero ed il suo spirito è condensato in formule sacre e venerande, prese dalla Scrittura, dai Padri e dai Dottori, perché l'opera della fondazione riuscisse tutta di Dio e solo di Dio, secondo i precetti del perfetto distacco da sé stesso e del completo abbandono in Dio.
“Qui cœpit et ispiravit illud... - lascerà scritto - Colui che cominciò ed ispirò l'Opera, la compirà altresì se noi non vi potremo reggere”.
Parola di completa morte a se stesso e di umile sottomissione ai voleri divini, in uno stato di amore trepidante!
L'esempio e la parola di Paolo Apostolo (2 Cor 1, 8-11) furono vissuti integralmente dal Bertoni, tanto che avrebbe potuto a buon diritto applicare a se stesso quelle parole: “Noi vivi siamo continuamente dati in braccio alla morte per causa di Gesù, affinché la vita divina di Gesù si riveli attraverso il nostro corpo mortale. La morte pertanto trionfa su di noi, mentre la vita cresce in voi” (2 Cor 4, 11-12)
L'osteomielite localizzata nella gamba destra era sempre presente ed operante: tutta la compagine somatica ne risentiva; le alterazioni febbrili, le fitte e le crisi più acute, l'erompere dei tumori erano testimonianze della sua attività.
La frase ermetica degli storici «il guasto degli umori», questo loro cavallo di battaglia, con cui vogliono dir tutto e non precisano niente, viene ora quasi in giusto taglio, intendendo che l'attività delle ghiandole endocrine doveva essere non poco disturbata da quel male inveterato.
Non abbiamo testimonianze precise se non a riguardo degli ultimi mesi, ma quello è il vertice a cui si giunse gradualmente.
Nell'inverno del 1842 c'erano alle Stimate due moribondi: uno era il P. Luigi Biadego, di 34 anni, affetto da tisi, l'altro era il chierico Luigi Ferrari, colpito da molto tempo da scrofola inguaribile.
Cresciuti alla scuola e nello spirito del loro Padre, dai loro lettucci si mandavano come una sfida di velocità nel cammino verso la porta del Paradiso. Messaggero dell'uno all'altro era il fratello infermiere, oppure lo stesso Padre Gaspare, che aiutandosi con un bastoncello trascinava la sua gamba impotente e renitente. Li confortava e li animava con parole di cielo come sapeva lui, e in particolare ci fu tramandato che citava loro quel testo di San Paolo (Rom 14, 7) che è un perfetto condensato del suo spirito di abbandono: “Nessuno di noi vive per sé stesso e nessuno muore per sé stesso; se noi viviamo, viviamo per il Signore, e se moriamo, moriamo per Lui; sia che viviamo, sia che moriamo siamo del Signore”.
Parole di tanto sapore e di tanta dolcezza al loro spirito e al loro cuore, che il P. Biadego, già perduto negli smarrimenti dell'agonia, al sentirle ripetere si rianimava tutto e chiedeva ogni tanto che gli fossero ricordate.
Primo a giungere al traguardo fu lui, e fu il 17 febbraio 1842, quando da pochi giorni aveva compiti i 34 anni. Era entrato alle Stimate nel 1828, fuggendo da casa di notte, per non essere impedito dal seguire la sua vocazione. Il chierico Luigi Ferrari (Don Luigetto) morì due settimane più tardi, e per Don Gaspare fu grandissimo dolore, poiché quel giovane era stato il suo beniamino, e per guarirlo aveva speso e fatto ogni tentativo, senza risparmio.
Nel 1844, ai dodici di gennaio, dopo quattro malattie ben lunghe e consecutive, sopportate con grande pazienza, morì P. Modesto Cainer.
Nel 1846, ai tre di luglio, moriva Don Francesco Cartolari. Di famiglia nobile e ricca, era entrato alle Stimate nel 1822, e vi aveva sempre dato esempi di umiltà e semplicità grandissime. Affatto distaccato dai suoi beni familiari, ringraziava con candore Don Bertoni per la fetta di polenta che gli era servita in tavola. La sua morte fu rapida (cinque giorni di encefalite), ma il suo ricordo durò perpetuo.
Se tutte queste morti, che trapiantavano i suoi figli dalla terra al cielo, ferivano profondamente l'animo di Don Gaspare, altre prove ancora lo colpivano maggiormente.
Nel 1843 si dovettero chiudere le scuole, per mancanza di personale. Ventisette anni di glorioso progresso giungevano a quel triste epilogo.
Più ancora fu addolorato Don Gaspare dalle defezioni.
Nel luglio del 1843 si ritirava dalle Stimate Don Vincenzo Raimondi, che vi aveva dimorato dodici anni ed era professore di storia ecclesiastica in Seminario. Il pretesto fu la mancanza di salute, e non deve essere stato inventato, poiché il trattamento usato alle Stimate non era tale da sostenere i deboli. Ma più forte forse, fu un altro motivo, vogliamo dire lo scoraggiamento nel vedere le Stimate declinare verso il fallimento, anziché procedere verso la maturità e il pieno sviluppo.
Comunque il Raimondi non fu un vinto, tornato alle libertà del mondo. Dopo qualche tempo passato in famiglia, entrò nella Compagnia di Gesù e vi morì nel 1855. Delle Stimate conservò sempre grato ricordo, e vi tornò a celebrarvi la Messa quando Don Gaspare morì nel 1853.
Come il Raimondi lasciarono le Stimate anche due coadiutori, fratelli fra di loro, dei quali uno v'era rimasto tredici anni e l'altro otto.
Più dolorosa e inaspettata di tutte fu la defezione di Don Carlo Fedelini. Era venuto alle Stimate ancora giovinetto - 16 anni - e fu il primo studente accolto da Don Gaspare (1826). Sacerdote nel 1834, era diventato professore di morale in Seminario, dimostrandosi validissimo interprete e difensore di S. Alfonso Maria De' Liguori. Tutto creatura di Don Gaspare, gli era carissimo per il suo particolare valore nel campo della scienza morale. Don Gaspare aveva avuto lumi profetici circa la sua futura defezione, e gliela aveva predetta quando egli ancora non ci pensava affatto. Il doloroso distacco avvenne nel 1847, e fu per i pochi rimasti più che un fulmine a ciel sereno. Il pretesto, anche per il Fedelini, fu la mancanza di salute, e difatti egli fu sempre molto cagionevole per tutta la vita. Don Gaspare, dimentico di sé stesso e del proprio dolore, gli raccomandò di non lasciare l'insegnamento nel Seminario. Le anime grandi sanno in ogni circostanza, anteporre il bene comune ai propri privati interessi.
Il 12 giugno 1853, prima ancora di sapere della beata morte del suo venerato Padre, Don Fedelini si sentì fortemente spinto a ritornare al nido della sua prima formazione. Due anni più tardi veniva esaudito.
A queste prove personali e particolari, che opprimevano Don Gaspare senza riuscire a turbarlo, vanno aggiunte le sventure e i disordini d'indole generale propri di quegli anni.
Già si è detto come le guerre e le rivoluzioni del 1848 portarono in carcere e fino al pericolo di fucilazione due sacerdoti delle Stimate.
I giorni dal 2 al 13 luglio furono per le Stimate giorni di suprema angoscia. Tutto poi si risolse in bene, ma intanto i cuori ne erano stati trapassati.
Più dolorosi ancora e di portata universale furono altri avvenimenti che colpirono il supremo Capo della Chiesa. Pio IX nel novembre 1848 era costretto a fuggire da Roma. Le alterne vicende ed i vari interventi austriaci, borbonici e francesi lo tennero lontano dalla sua sede e dal suo trono per ben diciassette mesi.
Gli animi dei cristiani si commossero; gli attestati di dolore, di fedeltà e di devozione divennero un plebiscito universale.
Quando quei documenti furono poi raccolti in grossi volumi, Don Gaspare volle leggerli tutti, ad uno ad uno, insieme con la sua comunità. La sua gioia, la devozione nel leggere quelle pagine di fede, dava la giusta misura della partecipazione, del dolore patito nei mesi che era durata la sventura.
I suoi giudizi a proposito di quelle rivoluzioni e sulle dottrine che ne erano state la causa già li abbiamo riportati.
E intanto i dolori fisici si aggravavano sempre più, fino a diventare insopportabili. A lui, sempre paziente, sempre sereno, anzi addirittura ameno ogni qual tratto, riuscirono a strappare richieste angosciose. “Gesù! Maria! Oh Dio, non posso più! Figlioli miei, pregate assai il Signore, che mi dia pazienza: ho bisogno del suo aiuto per poter reggere! Sapeste, figlioli miei, qual pena e quale angoscia!... Oh! Se il Signore non mi aiutasse con la sua grazia!...”
Tutti questi fatti, che noi abbiamo ricordato in modo alquanto slegato, costituirono nella realtà della vita un crescendo ed un accumularsi continuo. Eppure la tempra di diamante del carattere del Bertoni vi reggeva impavida.
Non deve sembrare un luogo comune se ci viene alla penna la descrizione di Orazio: «Justum et tenacem propositi virum / si fractus illabatur orbis, / impavidum ferient ruinæ» (Carme 1 Ode 3)
Raramente tutte le parti della ipotiposi si avverarono in modo così completo.
Il mondo civile, politico e sociale: l'organizzazione ecclesiastica, le dottrine morali e i sistemi filosofici, tutto era sovvertito dal profondo. La sua opera particolare veniva meno a vista d'occhio; lo scopo per cui da più di trent'anni aveva tanto faticato e patito sembrava svanire nella oscurità dei tempi, eppure il Bertoni perdurava immobile.
Sapeva di non essersi ingannato, sapeva di avere seguito una manifesta e precisa volontà di Dio, perciò perdurava irremovibile nel suo cammino, inaccessibile allo scoraggiamento.
Quando qualcuno lo abbandonava, aveva il coraggio di guardare dritto negli occhi a quei pochi che gli erano rimasti accanto e di domandare loro: “Volete andarvene anche voi? La porta è aperta. Io solo rimarrò qui”.
E nel cuore dei figli c'era lo sgomento; nelle loro membra il tremito.
«Qui cœpit ed inspiravit illud»: l'opera era di Dio, solo di Dio, e non era lecito ad un servo, ad un semplice strumento, esitare, tentennare, tirarsi indietro.
A proposito delle Costituzioni, che proprio in quei tempi stava formulando ed estendendo, scriveva al P. Bragato: “Pregate assai per tutti noi e per quello che sto scrivendo a piccole gocciole, se il Signore lo voglia e ne torni a suo onore. Noi facciamo le parti nostre secondo la grazia che Dio ne dona. Iddio farà certamente le parti sue, né io vo' sapere quello che voglia fare. Mi acquieto credendo fermamente che Dio può fare ogni cosa che vuole, e fa sempre il meglio ancora che molto distante dalle nostre piccole vedute e talora anche il contrario. «Benedicam Domino in omni tempore: semper laus eius in ore meo». E aiutatemi che il possiamo lodare sempre die ac nocte abitando insieme nella Sua Casa per tutta l'eternità: præterit enim figura huius mundi. Addio” (Lett. al P. Bragato 11-5-1841).
Queste parole erano un preciso programma ed un chiaro presagio per i dodici anni di vita che ancora gli rimanevano.
Ed il Bertoni seppe mantenersi pienamente fedele a quel programma, già vissuto da lui da decenni e decenni nel più completo abbandono in Dio; seppe superare le gravi prove così nettamente previste, dimostrando una fede degna di Abramo e di Noè.
«Contra spem, in spem credidit» (Rom 4, 18): lasciarono scritto i suoi figli ed i biografi, e quanto noi abbiamo rapidamente ricordato basta a giustificarli.
Ci sia permesso di rimpiangere ancora una volta la distruzione dell'epistolario Bertoni-Bragato.
Un solo brano, come quello riportato adesso, basterebbe a giustificare il nostro dolore! Quanta luce! Quali profondità interiori avremmo potuto scoprire nelle confidenze fatte dal Bertoni al più caro dei suoi figli!
L'epistolario Bertoni-Bragato unito all'epistolario Bertoni-Naudet sarebbe per noi una miniera inesauribile.
Questa seconda parte, che storicamente è la prima (1812-1834: 190 lettere, biglietti e frammenti compresi), la possediamo, ma essa si sublimerebbe in una luce perfetta se potesse essere accostata all'altra.
Giacché abbiamo aperta la parentesi dei rimpianti, ci sia permesso di presentarne un altro.
Noi vorremmo possedere il testo, o per lo meno le tracce, gli schemi, dei discorsi sulla Passione del Signore che il Venerabile teneva ogni venerdì nella sua chiesa.
Fin che gli fu possibile, li volle tenere egli stesso, arrivando sovente a farsi portare in seggiolone davanti all'altare. Quel suo stato di sofferente e quel suo zelo erano già di per sé una grande predica; ma uno che per tanti anni visse nel suo spirito e nella sua carne la sofferenza espiatrice, che è il contrassegno infallibile del vero cristiano, deve essersi espresso con eloquenza divina.
Aperta la chiesa al pubblico nel 1822, per consiglio ed impulso di Mons. Dionisio Dionisi, Vicario Generale della Diocesi, vi fu subito introdotta la devozione alle cinque Piaghe di Gesù, detta anche Funzione della Buona Morte. Si cantavano alcune strofe in onore della Passione di N. S. G. C.; seguiva il discorso di una mezz'ora, che tendeva a promuovere la conoscenza e la pratica delle virtù cristiane; si terminava poi con la recita di alcune preci all'altar del Crocifisso.
Piangeva il cuore al Servo di Dio nel vedere che: o per difetto di fede o per causa di passioni l'uomo “lascia al tutto e dimentica di amare Gesù Cristo”.
E diceva che gli uomini non amano Gesù Cristo perché non pensano a quella Passione che è “il segno della sua carità. Fategli contemplare Gesù paziente: non possono a meno di amarlo”.
A quelle prediche accorreva il fiore della società veronese, e tutti ne restavano edificati e commossi. Il Card. Canossa ce ne lasciò ampia testimonianza.
Potessimo noi possedere quelle prediche, anche solo in parte! Quanta luce, quanta devozione e commozione ne potremmo ritrarre!
Il Bertoni non parlò mai del nome della sua Congregazione, e nemmeno lo lasciò scritto nelle Costituzioni estese per essa. Vi parla del fine, ma non del nome.
Quella predicazione del venerdì, lo zelo e quasi la gelosia che ebbe per essa, valgono, però, molto più di una pagina autografa.
Quella parola commossa ed ardente, vivamente riflessa nella sua vita di pazienza eroica, valse a formare e ad indirizzare i suoi figli molto più di qualsiasi discussione teorica.
Il Santo di Assisi era solennemente festeggiato su quel colle romito, e la sua vita mistica vi era pienamente rivissuta.
Contento di avere indicata la via regia della Santa Croce, senza legare a sé quei devoti discepoli, egli si limitò a rimandarli al primo Modello di cui egli stesso era una copia.
Il Bertoni non ebbe visibili nel corpo le cinque stimmate di Gesù ma certo le ricevette nel cuore e nello spirito come già Santa Caterina da Siena.
Nel suo corpo, nella sua povera gamba destra, ricevette quelle centinaia di ferite, che lo fecero spasimare come Gesù flagellato e inchiodato in croce.
La stretta clausura degli ultimi undici anni, e in particolare i trenta mesi passati pressoché immobile sul suo lettuccio, finirono per rovinare completamente anche il suo stomaco, che non era mai stato robusto.
Nausee ed inappetenza lo accasciavano assai. Con tutta la sua buona volontà e la sua prontezza nell'obbedire ai medici, non riusciva a trangugiare nulla.
Altro malanno assai faticoso, e spesso insopportabile, era la prurigine a cui andava soggetto. Ne aveva sofferto anche appena ritirato alle Stimate, e forse altre volte in vita sua.
Il lungo decubito gli causò una vasta e lunga ferita al dorso (lato sinistro), che scoperta con ritardo dal fratello infermiere, fu curata e medicata per due lunghi mesi (marzo-maggio 1853) e giunse a rimarginare completamente venti giorni prima della sua morte. Questo comprova che il sistema circolatorio funzionava ancora egregiamente e che in lui la sensibilità era piena.
I biografi parlano anche di reumi e di dolori artritici.
Dice il Lenotti: “Non poteva mai muovere da sé né il capo, né un piede, né una gamba: il perché di quando in quando, non potendo reggere al dolore ed all'incomodo di star sempre fermo, diceva: Fatemi la carità, sollevatemi quel piede, tramutate quella gamba di luogo, piegatela. E così di peso conveniva muoverlo per sollevarlo. Ma il peggio del dolore e della pena si era che egli, essendo così piagato e tutto espulsione e dolori per ogni parte, per la sua delicatezza di nervi, per le penitenze, per le tante fatiche e strapazzie per il guasto degli umori, era per tutto il corpo reumi e dolori: così toccandolo alle volte appena, provava acutissimo spasimo; ed oppresso dall'angoscia di non potersi punto muovere, era soprappreso d'ora in ora da tale angoscia, da tale spasimo che si sentiva opprimere e morire. E però era necessario correre velocemente per altri padri e fratelli, così in tre o quattro levarlo di peso, due alle braccia, uno alle gambe, un altro ad alzare alquanto le coperte per mitigargli alquanto la pena e così voltarlo sull'altro fianco o supino come meglio si potesse incontrare a collocarlo onde stesse meglio, il che era difficile perché non si trovava bene da nessun lato”.
Fu appunto durante queste difficili e spasimanti manovre, che si dovevano eseguire da tre o quattro insieme, che egli ebbe il coraggio di sorridere e di far sorridere. I visi dei suoi figli si sbiancavano ed atterrivano per lui durante quella pietosa bisogna, ed egli allora una volta (12 o 15 giorni prima della sua morte) “si mise lepidamente a far le burle con la bocca e col viso verso l'uno e l'altro di quelli che lo assistevano, rattemperando con un po' di riso le tante sue pene”. (Lenotti).
Non è a dire quanto gli astanti ne fossero inteneriti.
Ridotto a queste condizioni, passò gli ultimi mesi solo con qualche liquido, con un po' di asparagi e di fragole.
Gli parve un giorno che una sardina gli avrebbe ridestato l'appetito. La sardina venne, andò e ritornò per più giorni, tanto che ci sarebbe stato da ridere, se non fosse stato invece il punto di piangere.
Pertanto in quell'estremo periodo della sua vita il suo unico cibo e conforto fu quello spirituale e divino della santa Comunione, che riceveva ogni giorno a digiuno e con grande sentimento di pietà. Poiché, sebbene avesse le forze fisiche affrante e consunte, conservò sempre lucida e fresca la mente come nel fiore degli anni: ne sono testimoni tutti quelli che lo visitarono fino alla vigilia della sua morte, e trovarono sempre il suo spirito vigoroso nel corpo già quasi disfatto (Fiorio).
La materia si riduceva in cenere, ma la fiamma dello spirito lingueggiava alta e l'anima purificata si librava verso il suo Creatore.
Passava delle intere notti nella meditazione rapita dell'Ave Maria, o anche di una sola frase di essa, oppure del Pater Noster.
Lo confessò egli stesso e lo insegnò come mezzo adatto per vincere l'insonnia, a qualcuno dei suoi figli pure trattenuto a letto.
Pare che negli ultimi giorni della sua vita sia stato confortato da qualche celeste apparizione.
Lo assisteva Fratel Luigi Ferrari, che già da vari anni disimpegnava quel pietoso ufficio. Una volta, mentre vegliava sonnecchiando nella stanza di Don Gaspare, d'improvviso questi lo chiamò e gli chiese se nulla avesse veduto. Il Fratello rispose negativamente. Dopo qualche tempo Don Gaspare lo chiamò di nuovo e gli fece la stessa domanda; e la cosa si ripeté fino a quattro volte consecutive. L'assistente aveva notato sul volto dell'ammalato un'ansietà insolita, e una gran premura di mutare discorso dopo aver ricevuta la risposta negativa. Da ciò argomentò che il santo vecchio avesse avuto qualche celeste consolazione, perché lui era ben sicuro che quello non era vaneggiamento di mente. Don Gaspare conservò sempre sane le facoltà mentali fino all'ultimo, e nelle sue malattie non andò mai soggetto a deliri ed alienazioni, né mai ebbe a provare trasporti di fervida immaginazione o di febbrile fantasia.
E arrivò l'ultimo dei suoi giorni.
Al mattino ricevette la Comunione, a digiuno come sempre. Doveva essere quella il suo Viatico per l'eternità.
Poco oltre il mezzodì l'infermo ebbe una crisi di languore gravissima. Al richiamo del fratello infermiere, la comunità che sedeva a mensa, accorse trepidante attorno al letto del Padre.
Lentamente si riebbe.
Rispondeva sereno e cortese; ma ormai solo con lievi cenni del capo o con gli occhi, alle parole di conforto e di devozione che l'uno o l'altro dei presenti gli andava suggerendo.
Con pienissima cognizione e sentimento di sé si confessò per l'ultima volta al suo Don Giovanni Maria Marani. Fu lieto di vedersi amministrata l'Estrema Unzione. Al sacro rito assistevano genuflessi tutti i suoi figli.
Quando poco dopo, con un filo tenue di gemito, lo videro e l'udirono entrare in agonia, si sentirono straziare il cuore.
Era domenica quel giorno e, poco dopo le quindici, tre dei sacerdoti delle Stimate con il cuore affranto da un triste presagio, abbandonarono la stanza del Padre che agonizzava, perché attesi in tre chiese cittadine per la catechesi al popolo.
Il dolce e dolente ufficio di assistere il moribondo venne affidato a Don Brugnoli.
Don Marani era uscito anche lui per portarsi alla chiesa di San Luca, ma poi, cambiando decisione, aveva mandato ad avvisare quel parroco ed era tornato sui suoi passi.
Entrando nella stanza dolorosa il primogenito scruta con occhi trepidanti il volto del Padre, e scopre che l'anima del dolce maestro ha già spiccato il volo in seno a Dio. Volgendosi allora a Don Brugnoli che continuava con tutto impegno le Orazioni sul Rituale, gli dice: “E non vedete, che Don Gaspare è morto?”
Il santo vecchio se ne era passato tanto dolcemente, che chi gli stava accanto non aveva potuto accorgersene.
Non sembrava morto. L'anima, spiccando il volo, gli aveva lasciato in volto come l'aria di un dolce sorriso.
Aveva 75 anni, 8 mesi e 3 giorni.